L’arte di coltivare piante in miniatura, affonda le proprie origini nella Cina del XV secolo a.C. dove veniva chiamata p’en - ts’ai ovvero paesaggio in vaso. Giunta in Giappone nel corso del periodo Kamakura (1185-1333), assume il nome di bonsai che significa “coltivare in un vaso piatto”. Proprio nel paese del Sol Levante, la tecnica di coltivazione degli alberi nani viene affinata e perfezionata raggiungendo livelli davvero sorprendenti. I primi bonsai fecero capolino in Europa nel 1878, in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi, ricevendo una tiepida accoglienza.
Dopo la prima guerra mondiale l’interesse riprende soprattutto in Francia e Inghilterra, dove nel frattempo iniziano a sorgere numerosi giardini giapponesi, anche se ancora fortemente influenzati dai modi occidentali. Oggi la moda del bonsai dilaga. Gli appassionati sono sempre più numerosi e le associazioni specializzate, diffuse in tutto il mondo, sono in costante contatto con i propri accoliti grazie ai nuovi, potenti mezzi di comunicazione.
Ma, come sempre accade, ogni medaglia ha il suo rovescio e accanto alla folta schiera di cultori della materia, ce n’è una altrettanto numerosa che sta dall’altra parte: quella delle piante.
Sono coloro i quali si domandano e non si spiegano perché, una cultura come quella giapponese, ammirabile per numerosi aspetti, esprima questo gusto al limite del sadico, costringendo un albero - alberi da frutto e conifere per la precisione - a rimanere piccolo, a vivere in un vaso delle dimensioni di una scatola di fiammiferi, torturandolo con continue potature, tagli e piegature per direzionarne e contenerne la crescita. Il pensiero, immediato e spontaneo, corre alla terribile pratica delle geishe cui venivano fasciati i piedi per farli rimanere piccoli: loto d’oro li chiamavano.
A questo punto, l’istinto prevale, il piccolo albero viene liberato dall’angusto contenitore e piantato in giardino, finalmente felice di esprimersi secondo natura, con buona pace sua e del suo liberatore.
Ma perché esiste questa pratica degli alberi in miniatura? Pur essendo strettamente legata alla religione taoista e al suo aspetto magico-religioso, è in Giappone che la coltura dei bonsai ha trovato grande riscontro al punto di diventare una vera e propria disciplina, paragonabile alla cerimonia del tè o all’arte della calligrafia. Ironia della sorte, il bonsai in Giappone è considerato simbolo della bellezza della natura.
Una bellezza non intesa nel senso classico occidentale di armonia di forme imperiture, ma espressione delle forze naturali e dei segni che inevitabilmente il tempo lascia nel suo eterno fluire. Un vecchio susino, segnato dal passaggio delle intemperie, nonostante il portamento non più elegante reca con sé la perfetta imperfezione. Sarà sicuramente abitato da uno spirito che l’ha scelto come dimora proprio per la veneranda età e per i segni di vita vissuta che lo distinguono.
Per questo motivo sarà cinto di una corda consacrata, dotato di una stele e verranno offerti doni propiziatori alla divinità che lo abita.
Il bonsai incarna il simbolo della grandiosa vetustà delle piante e quindi della capacità dell’uomo di riconoscere e apprezzare simili valori.
Addirittura sembra che le mani esperte dei maestri bonsai giapponesi facciano bene ai piccoli alberi. Le cure assidue e attente del bonsaista in
realtà sono garanzia di lunga vita per la pianta che le riceve che, al contrario, in natura potrebbe essere minacciata da ogni genere di pericolo.
Ma ogni intervento di potatura o sfoltimento va fatto da mani esperte, si tratta di un’arte che richiede una profonda consapevolezza di sé, dei movimenti, delle scelte.
Ora, posto che siamo in occidente e che sarà molto difficile acquisire in poco tempo tutta l’esperienza e i segreti di un maestro giapponese a meno di fare un stage di parecchi anni nei luoghi d’origine dell’amata piantina, forse sarebbe meglio affidarsi alle più semplici e razionali regole della fisiologia vegetale.
E invece le dirette interessate, le piante, come la pensano, o meglio, pensano?
Studi accreditati e recentissimi parlano di “consapevolezza” delle piante: un vegetale è consapevole dell’ambiente che lo circonda, reagisce alla luce e ai profumi; se toccato addirittura è in grado di distinguere tra i diversi tipi di contatto.
Una pianta ricorda, nel senso che serba memoria delle precedenti malattie o delle conseguenze delle intemperie ed è quindi in grado di adattarsi, modificando la propria fisiologia proprio grazie a tali ricordi.
Però una pianta non è consapevole di chi si prende cura di lei, o meglio: l’uomo è semplicemente una delle numerose sollecitazioni esterne che ne garantiscono la sopravvivenza.
Insomma, dicono gli scienziati, le piante non hanno un’emotività e quindi chi se ne prende cura è un po’ come se instaurasse lo stesso rapporto, che ha un bambino con il suo amico immaginario.
Pare appurato che siamo noi individui a proiettare sulle piante tutta la nostra emotività e che le piante, pur interagendo con l’ambiente esterno, non siano in grado di avere un’esperienza emotiva.
Il sentimento di dolore, per esempio, richiede un supporto di connessioni neuronali piuttosto complesse della corteccia cerebrale, che possiedono solo “i vertebrati superiori”.
In definitiva, non essendo dotate di cervello, le piante non soffrono.
L’evoluzione ci ha condotti su strade diverse, dotando l’uomo di un’intelligenza che le piante non hanno: l’attitudine di interessarsi alle cose e di prendersene cura è solo prerogativa umana.
Va detto che numerosi umani da questo punto di vista sono piuttosto carenti, per questo motivo talvolta si preferisce parlare e interagire con le piante.
Quando passeggiamo in un giardino potremmo quindi chiederci cosa pensano e cosa vedono i fiori, la natura intorno a noi; potremmo anche soffermarci a osservare uno splendido  albero e accarezzarne il tronco. L’albero si ricorderà di essere stato toccato, ma non si ricorderà di noi. Noi d’altro canto serberemo il ricordo di un momento speciale della nostra via. Così ci ammonisce la scienza e noi non possiamo che prenderne atto.
Sarà anche questione di proiezione di emotività, ma c’è chi non può proprio sopportare la vista di un albero nano piantato in una scatola. Nulla vieta di preferire accarezzare il bonsai ripiantato in un grande giardino e vederlo crescere, perché no, felice anche se ci hanno detto che felicità e tristezza nelle piante non esistono.
Tutti sappiamo che l’aurora, quel chiarore purpureo che appare nel cielo prima del sorgere del sole, è dovuto alla rifrazione dei raggi dell’astro diurno ancora sotto l’orizzonte. Qualcuno poco prima che la scienza diventasse una vera e propria disciplina, ci ha raccontato che Aurora è la dea che attraversa il cielo con il suo carro ad annunciare il sopraggiungere del sole spargendo petali di rosa. “Aurora dalle dita rosa” la chiamava Omero. Essendo “vertebrati superiori” dotati di intelligenza, consapevoli, grazie alla scienza, della realtà che ci circonda, possiamo permetterci di prediligere l’una o l’altra versione. Così come possiamo decidere di liberare ogni bonsai che vediamo intrappolato nella sua minuscola dimora restituendogli una libertà altrimenti negata. Del resto chi l’ha detto che non sia bello avere un amico immaginario?

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